Da quando intrapresi i miei studi esoterici, prima per curiositá poi per passione, mi incaponii soprattutto, sulla problematica dell’origine dell’essere in senso ontologico.
Avevo da tempo compreso che l’individuo con la sua personalità ed i suoi atteggiamenti costruiti in gran parte dalla pressione dell’ambiente familiare e scolastico ed in piccola parte per puro vezzo imititativo, non poteva essere identificato o, diciamo meglio, ridotto al mero personaggio che tutti i giorni si alza per affrontare la vita prosaica e poco stimolante cui la maggior parte di noi è abituata. Sapevo che nelle profonditá della nostra mente si celava la risposta e cercavo affannosamente la risposta al quesito: “chi sono realmente”; era palese che colui che banalmente veniva indicato con il mio nome, non ero realmente io ma era veramente difficile capire chi o cosa veramente fossi.
Mi imbattei un giorno, durante le mie ricerche, in un testo dal titolo: “gli yoga sutra di Patanjali”, una sorta di bigino sulla tecnica yoga attribuito a questo autore e risalente a circa 6 secoli prima di Cristo; in diversi aforismi, detti sutra appunto, veniva descritto e spiegato un termine chiamato “avidya”. La definizione più diffusa che trovai fu “ignoranza” nel senso proprio di mancanza di conoscenza ma di cosa? Non riuscivo a comprendere finché in uno dei vari commenti che trovai, scoprii che si trattava di mancanza di conoscenza del sè e veniva descritto come la radice di tutti i mali che alla fine rendono possibile il ciclo della rinascita, unica soluzione per porre rimedio agli errori a catena che si susseguono a seguito di tale “avidya”.
Ma il “sé” di cui il commento parlava, cos’era in realtá? Lo compresi continuando ad addentrarmi nel testo; due o tre sutra dopo veniva introdotto il termine “asmita” traducibile come: “senso dell’ego” o anche, letteralmente: “veleno” ma in che senso l’idea dell’ego era un veleno? I commenti degli antichi convergevano tutti sul seguente concetto: si tratta di una falsa identificazione e cioè noi identifichiamo il sé con lo strumento della sua percezione e cioè con la mente o con il corpo o con i sensi o con tutti e tre contemporaneamente.
Capii immediatamente che ero di fronte alla soluzione: quello che la maggior parte di noi pensa sia il sé in realtá é l’idea che il sè stesso si è fatto a riguardo. Quindi quando un essere si ritrova dentro a un corpo, dotato di una mente e di meccanismi sensori, considera se stesso e si identifica con la sua mente o con il suo corpo non riuscendo a sfuggire alla trappola dei suoi stessi sensi o nei casi più idealisti nell’idea che uno si fa di sé.
Quindi “lui”, infine, cos’è? Possiamo cercare di definirlo come unità consapevole di essere consapevole ma saremmo sempre nella falsa identificazione perchè è un pensiero quindi mente. Quindi come si esce da questa trappola paradossale? Il conoscitore e l’oggetto della sua conoscenza devono unificarsi sparendo entrambi; il risultato, indefinibile, è uno stato di coscienza che viene chiamato samadhi che letteralmente significa proprio “unione”.
È uno stato molto elevato che può sfociare in una vera e propria estasi mistica che sfocia nella certezza assoluta di chi si è.
S.S.