Se ogni fine rappresenta l’inizio di altro, ci riferiremo a Bataille che riteneva l’uomo “un essere discontinuo”, quale mortale. Questa definizione ci sembra appropriata per altri motivi, da un lato (ci sono sempre tante cose da sistemare, tante interferenze, interruzioni, messaggi vari e quasi simultanei se non contraddittori, necessità immediate siano pure fasulle) ancora sociali ma a livello individuale e abitudinario dall’altro, considerato che svolgere un’attività secondo un filo conduttore ininterrotto e coerente, non fa più parte del costume ordinario e assimilato da tutti, semmai questo tipo di razionalità ed efficacie fosse esistita una volta.

Discontinuo, di sicuro, e soprattutto perché come un fiume che rompe gli argini, al corso logico di qualsiasi discorso o azione, si sostituiscono considerazioni che non concernono chi ne subisce le conseguenze, pilastro delle nostre società sul piano economico.

Per esempio, guardare un film in televisione significa cinque o sei serie di messaggi pubblicitari che inquadrano e interrompono la trasmissione, di cui come se non bastasse, paghiamo il costo quando compriamo il prodotto in questione.
In altre parole, non più essere ritenuti persone, cittadini, qualsivoglia tipo di creature umane, ma consumatori, cioè clienti (quello che è sotto la protezione, che ascolta), ovvero uomini di seconda classe, ci riduce in primo luogo ad anelli passivi del sistema, a individualità anonime se non confuse.

Il liberalismo, che riposava su mercati aperti e possibilità varie d’intraprendere, sembra salvo casi eccezionali, un formidabile macchinare che non concede nemmeno più ai suoi sostenitori, le legittime aspettative che potrebbero nutrire.

In qualche modo, la globalizzazione, al tempo stesso effetto e causa, dopo che gli stati hanno istituito sotto forme diverse, le strutture che permettessero lo sviluppo di un giro d’affari quasi illimitato entro i confini, ma anche oltre, devono far fronte o perlopiù cedere a una situazione di concorrenza spietata che mina la concorrenza stessa, per sboccare su monopoli più o meno mascherati, (i giganti dell’informatica e delle comunicazioni, termine sempre meno definito ne sono un esempio negabile, ma vale in quasi tutti i settori di attività, e purtroppo, anche per l’alimentare, – la cosiddetta “grande distribuzione”), che agiscono al di sopra delle nazioni, eventualmente contro l’interesse delle stesse, (e cioè contro le loro popolazioni, composte da cittadini prima di chiamarli consumatori), ma soprattutto, (era il sogno dell’internazionalismo comunista), segna la fine del liberalismo in quanto ideale e possibilità d’intraprendere per tutti quelli, desiderosi di creare attività commerciali qualsiasi, e cioè di lavorare in proprio; invece di diventare pubblici funzionari, i membri della stragrande maggioranza, sono condannati a diventare dipendenti di cartelli le cui ramificazioni in settori multipli risultano talmente estese che ben difficilmente, sapranno realmente quale sia oltre a guadagnarsi uno stipendio, quali interessi economici e non solo, servono.

La motivazione dell’impiegato, se non strettamente personale in senso individualistico, non può nemmeno più essere rivolta all’idea di nazione, e questo tra l’altro, perché gli stati legiferano volente nolente, in tal modo di delegare a queste aziende, gran parte del potere e del ruolo affidati loro ieri ancora. Il lavoro stesso, perduto il significato collettivo che spetta ad ogni attività umana, (nulla si fa senza un fine definito, è il principio stesso della libertà), si scioglie nell’assenza di finalità comune, poiché questa finalità medesima, non rivela alcun bene o appartenenza condivisa, e come lo scrisse Galimberti («I miti del nostro tempo»): “Ma quando l’umanità, come oggi avviene con la globalizzazione, diventa idealmente un solo gruppo, funzionale alla logica del mercato, ma non alla logica dello stato, i processi di identificazione e di autoidentificazione non possono più riferirsi ai ruoli primari del sesso, dell’età e della capacità generazionale come nello stadio dell’identità familiare o tribale, e neppure al ruolo di cittadino come nella logica statale, ma in concorrenza con tutti questi ruoli, che comunque non vengono eliminati, i processi di identificazione e di autoidentificazione avvengono nella forma di una rappresentazione di sé nella molteplicità dei ruoli funzionali dell’apparato economico, che supera le vecchie identità non più referenziali a favore di identità sempre più astratte e, in quanto astratte, artificiali.”

L’identità scomparsa, (abbiamo proposto in precedenza alcuni argomenti in proposito), corrisponde a una mancanza di riconoscimento, siano pure le lodi distribuite come caramelle in ogni occasione, dato che non è la persona che viene considerata, ma il ruolo che svolge, indistintamente, o addirittura, neanche quello, ma la parvenza, l’esteriorità che la società quale ente sempre più indeterminato, prefigge, a seconda dell’aria che tira, di quello che sul momento sembra di poter raffigurare un’immagine convincente, meno di ciò che è, che dell’illusione che converrebbe diffondere, alla quale aggrapparsi nell’attesa di meglio.

Il miraggio che consiste nel credere che l’apparenza fasulla possa sostituire ogni rappresentazione realistica o immaginaria non è comunque un fenomeno culturale nuovo, e probabilmente, culla le speranze dei cittadini, ogni volta che una crisi sufficientemente acuta e durevole si presenta. In altre parole, colma il vuoto lasciato da un dubbio o persino da un crollo dei valori estetici tipico dell’eterogeneità e della disunione dei membri di una medesima collettività, la quale trova in esotismi diversi un compenso alla scomparsa o alla titubanza dei propri riferimenti, dei punti fermi oramai traballanti.
M.B.